Riportiamo e divulghiamo il documento redatto dall’Osservatorio permanente sulla Legalità Costituzionale, da Generazioni Future, il Comitato Rodotà, e Comilva, condividendone in piano i contenuti.
Con la disponibilità anche in Italia dei primi vaccini contro il Covid-19, è sorto un vasto dibattito giuridico sulla necessità o meno, a determinate condizioni, di adottare obbligatoriamente la profilassi vaccinale nel rapporto di lavoro.
Il tema, che interseca diritti fondamentali della nostra Costituzione con un consolidato corpus di norme giuslavoristiche, è indubbiamente poliedrico e complesso, e questo breve contributo non potrà che offrire alcuni spunti interpretativi in relazione agli istituti preminenti.
Il dato di partenza di qualsiasi ragionamento è che allo stato il legislatore non ha emanato alcun provvedimento, e non esiste quindi una norma che in qualche modo imponga – o anche solo raccomandi – la vaccinazione contro il Covid-19, sia per la generalità della popolazione, sia specificamente nell’ambito dell’attività lavorativa.
Le ragioni di tale scelta, se di scelta si è trattato, travalicano evidentemente lo scopo di questo scritto, e tuttavia non possiamo non tenere in considerazione che lo sviluppo accelerato del vaccino, ancora in fase autorizzazione condizionata, ed i molti interrogativi da risolvere – ad esempio sull’approvvigionamento delle dosi, sulle problematiche organizzative per l’inoculazione del siero su vasta scala, sulla possibilità che anche un soggetto immunizzato possa trasmettere la malattia ed in generale sugli effetti della vaccinazione – possano aver suggerito un condivisibile atteggiamento di prudenza.
L’assenza di una specifica indicazione da parte dello Stato ha indotto le parti sociali e i giuristi a delineare, sulla base delle norme vigenti, i doveri e le responsabilità del datore di lavoro in relazione al rischio pandemico e alla vaccinazione, che vanno contemperati con il diritto fondamentale della persona all’autodeterminazione delle cure mediche.
Il dibattito, per quanto sinora pubblicato, pare essersi imperniato principalmente sull’analisi della norma di chiusura del sistema antinfortunistico, l’art. 2087 c.c., nella sua enucleazione attraverso il D.Lgs. 81/2008. Il tutto sullo sfondo, quasi incidentalmente, della Costituzione, che invece, a parere dello scrivente, costituisce il prisma per orientare l’interpretazione in questa delicata questione.
È noto infatti che l’art. 32 Cost. qualifica la salute non solo come fondamentale diritto dell’individuo, ma anche come interesse della collettività, tanto che l’esigenza di tutelare la dimensione collettiva della salute può legittimare una compressione dei diritti del singolo tramite l’imposizione di trattamenti sanitari obbligatori. È chiaro però che un simile sacrificio, la cui ratio giustificatrice è riposta nella sussistenza di un interesse della collettività non altrimenti garantibile, prevede al secondo comma della norma in commento un invalicabile limite di legittimità dell’imposizione, che può avvenire soltanto quando vi sia una legge a prevederlo.
Sul punto alcuni autori hanno affermato, in alcuni casi davvero apoditticamente, che la riserva di legge contenuta nella norma in commento sarebbe soddisfatta dall’applicazione
pratica del combinato degli articoli 2087 c.c. e 279, D.Lgs. 81/2008, posto che il Testo Unico della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro contempla espressamente, nella seconda norma citata, la vaccinazione.
Ma tale tesi, per cui il requisito costituzionale della riserva di legge sarebbe così indirettamente soddisfatto, non è affatto condivisibile.
Va detto in primo luogo che la costante prassi interpretativa dell’art. 32 Cost. ha previsto, anche e soprattutto con riferimento al mondo del lavoro, l’imposizione di vaccinazioni obbligatorie solo attraverso l’adozione di una legge ad hoc.
Tanto che vi è chi ha nutrito dubbi persino sulla validità di un obbligo disposto in via d’urgenza con decreto legge o con legge regionale. Dubbi che, in quest’ottica, si porrebbero con maggior ampiezza in relazione al tema discusso, tenuto in considerazione che il Testo Unico della salute e della sicurezza del lavoro è un decreto legislativo delegato al Governo dalla Legge 123/2007, dalla cui lettura non si può evincere in alcun modo un
intento neppure di superamento, ma anche di semplice correlazione con il limite di cui al secondo comma dell’art. 32 della Costituzione.
Ma al di là della prassi, che non di meno è un passaggio fondamentale dell’esegesi, il superamento della riserva costituzionale attraverso l’applicazione del Testo Unico sulla salute e sulla sicurezza negli ambienti di lavoro, come suggerito da alcuni autori, aprirebbe un varco ad insostenibili iperestensioni – persino, in ipotesi, del tutto arbitrarie – della potestà datoriale, che non solo si sostituirebbe al legislatore nel delicato ed esclusivo compito di adottare una scelta così cruciale quale quella di imporre un trattamento sanitario, ma che, di converso, verrebbe pure gravata da una responsabilità che non gli può essere ascritta: perché se lo Stato può “abdicare” attraverso il combinato delle norme citate, si sostituisce esso il datore di lavoro, che si ritroverebbe esposto in prima linea alla scelta di agire o di non agire, in entrambi i casi con potenziali responsabilità anche molto rilevanti.
Tali considerazioni possono aver guidato il legislatore nella prudente formulazione letterale utilizzata dall’art. 279 del D.Lgs. 81/2008, che non a caso contiene un’indicazione che si mantiene ben al di sotto del limite costituzionale, perché al secondo comma prescrive che il datore di lavoro – su conforme parere del medico competente e “solo per quei lavoratori per i quali anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione” – adotti misure protettive particolari, tra cui non l’obbligo (così recita l’art. 32 Cost.) ad effettuare la vaccinazione, ma la “messa a disposizione” di vaccini efficaci.
Non si può dubitare che mettere a disposizione equivalga ad un’offerta del tutto scevra di un contenuto coercitivo, il che conduce necessariamente ad una lettura della norma come volta semmai a proporre, ma non certo ad imporre, nel rispetto quindi del vincolo costituzionale, che non può intendersi allora in alcun modo superato.
Se quanto sopra ci porta ad escludere la facoltà del datore di lavoro di imporre la vaccinazione ai propri dipendenti, desta non poche perplessità anche il criterio di adozione della misura di protezione, e la conseguenza della mancata adesione spontanea da parte del lavoratore.
Sul primo profilo alcuni commentatori hanno posto l’attenzione in particolare sul dettato dell’art. 28 del D.Lgs. 81/2008. Perché se la vaccinazione di cui al citato art. 279 T.U., fermo il parere del medico competente, discende dalla preventiva valutazione dei rischi, quest’ultima ai sensi dell’art. 28 T.U. deve riferirsi alla salute “durante l’attività lavorativa”, abbracciando pertanto qualunque rischio, endogeno ed esogeno al lavoro e agli ambienti in cui si estrinseca l’attività. Il che, anche se la pandemia da Covid-19 è pressoché ubiqua, ed il rischio – con le debite gradazioni – sussiste tanto dentro quanto fuori l’azienda, impone al datore di lavoro di adottare ogni utile misura.
E del resto, con lo scoppio della crisi, il 14 marzo 2020, le parti sociali, su impulso e con l’assistenza di alcuni dicasteri, hanno adottato il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” che ha formulato delle linee guida per agevolare le imprese nell’adozione di protocolli di sicurezza anti contagio, e che chiaramente – siamo agli inizi del focolaio – neppure menzionano la profilassi vaccinale, per cui si è dovuto attendere quasi un anno.
Il citato principio di carattere generale della valutazione del rischio “durante” l’attività lavorativa – di portata evidentemente “espansiva”, atta a considerare ogni e qualsivoglia rischio connaturato o meno alla concreta attività svolta – viene però indubbiamente circoscritto con riferimento alla vaccinazione, perché questa, ai sensi dell’art. 279 T.U., è messa a disposizione non per un possibile contagio “durante” la lavorazione, ma solo ove l’agente biologico sia “presente nella lavorazione”.
La prospettiva dunque trasla: se la generalità dei rischi nell’ambiente di lavoro va considerata per come può manifestarsi “durante l’attività lavorativa”, che è un criterio meramente temporale, la scelta a determinate condizioni di proporre ai lavoratori un vaccino – che costituisce un notevole “salto di grado” dal più comune dispositivo di protezione individuale – va valutata solo se l’agente biologico patogeno è “presente nella lavorazione”, che è invece un criterio oggettivo.
Si tratta, quella dell’art. 279 T.U., di una condizione che potrebbe allora avverarsi tanto nei reparti Covid-19 degli ospedali, quanto nella ricerca farmacologica per contrastare il virus, nell’analisi di sieri e tamponi e in tutti gli altri contesti in cui il contrasto alla malattia costituisca più direttamente l’oggetto delle mansioni, tanto che, appunto, l’agente biologico patogeno possa essere considerato come “presente nella lavorazione”.
La chiave di lettura proposta, più strettamente ancorata al vincolo costituzionale di riserva di legge e al dato letterale della normativa giuslavoristica, pare dunque, in tema di trattamento sanitario, separare nettamente i compiti del datore di lavoro da quelli dello Stato: il primo può e deve “imporre” ai lavoratori, distanza, mascherine, smart-working, norme igieniche e dispositivi di sicurezza vari, ma di fronte ad una pandemia – di Covid-19, ma possiamo immaginare focolai di morbillo o di altri agenti patogeni – può mettere a disposizione un vaccino se il virus è “presente nella lavorazione”; lo Stato, invece, può assumere solo attraverso l’emanazione di una legge la delicatissima scelta di rendere obbligatoria per determinati settori o erga omnes la vaccinazione.
L’interpretazione proposta appare inoltre suffragata dall’impostazione dell’art. 279 T.U., che è evidentemente volto ad una forma di tutela ad personam, che mal si concilia con obblighi rivolti alla generalità dei lavoratori di un’azienda. La norma prevede infatti che la misura protettiva particolare sia adottata per “quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedano misure speciali di protezione”, anche tenuto conto dell’eventuale immunità del singolo già acquisita. Il datore di lavoro deve quindi necessariamente raccogliere la valutazione del medico competente (“su conforme parere del medico competente”), il quale a sua volta deve formulare un giudizio sul singolo dipendente.
Il quadro giuridico prospettato appare inoltre in sintonia con le linee guida pubblicate il 17 febbraio 2021 dal Garante per la protezione dei dati personali, che ha utilizzato il formato delle FAQ.
Alla domanda “il datore di lavoro può chiedere conferma ai propri dipendenti dell’avvenuta vaccinazione?” il Garante risponde in modo negativo, affermando non solo che il datore di lavoro non può chiedere ai propri dipendenti di fornire informazioni sul proprio stato vaccinale o copia di documenti che comprovino l‘avvenuta vaccinazione anti Covid-19”, ma precisando anche che non sarebbe lecito il trattamento di dati sulla vaccinazione da parte del datore neppure raccogliendo il consenso dei lavoratori. Tanto che, prosegue l’Autorità, il medico competente non può trasmettere i dati sulla vaccinazione del dipendente al datore di lavoro, dovendosi limitare a fornire i soli giudizi sull’idoneità alla mansione.
Rispetto invece al quesito fondamentale sulla possibilità per il datore di lavoro di richiedere la vaccinazione anti Covid-19 come condizione per l’accesso ai luoghi di lavoro e per lo svolgimento di determinate mansioni, il Garante, in linea con quanto abbiamo sin qui esposto, ha precisato in modo netto che l’art. 279 T.U. potrà essere applicato solamente “nei casi di esposizione diretta ad “agenti biologici” durante il lavoro, come nel contesto sanitario che comporta livelli di rischio elevati per i lavoratori e per i pazienti”. In tale contesto “solo il medico competente (…) nel rispetto delle indicazioni fornite dalle autorità sanitarie anche in merito all’efficacia e all’affidabilità medico-scientifica del vaccino, può trattare i dati personali relativi alla vaccinazione dei dipendenti e, se del caso, tenerne conto in sede di valutazione dell’idoneità alla mansione specifica”.
Fermo quanto sopra, l’ultimo e non meno delicato aspetto da considerare riguarda l’eventuale mancata adesione del lavoratore alla vaccinazione proposta dal datore di lavoro.
Qui, seguendo il solco che abbiamo tracciato, dovremmo innanzitutto delimitare l’azione del datore di lavoro ad un’offerta che faccia seguito alla valutazione del rischio, con il conforme parere del medico competente, prospettata solo per quei lavoratori la cui mansione li porti a contatto con l’agente biologico – il virus – “presente durante la lavorazione”.
In questa casistica, che nondimeno può essere eterogenea e di cui non è possibile segnare i confini, la mancata adesione del lavoratore, anche in relazione ai suoi obblighi ricapitolati primariamente dall’art. 20 T.U., non potrà mai configurare – come pure alcuni commentatori hanno prefigurato – una violazione disciplinare punibile ai sensi
dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori. Perché se nelle ipotesi previste la vaccinazione, quasi alla stregua di un negozio giuridico, è il frutto dell’incontro di un’offerta (“messa a disposizione”) e di un’adesione, la mancata accettazione non potrà mai configurare alcuna violazione di direttive datoriali.
Più semplicemente, se il vaccino, in assenza di una norma, non può costituire l’oggetto di una precisa disposizione datoriale, parimenti l’eventuale mancata vaccinazione non potrà rappresentare la violazione di un ordine, che in quanto tale non esiste, né di un dovere, su cui lo Stato non si è pronunciato.
Dubbi ancor più profondi suscita poi la prospettazione alternativa, per cui il lavoratore che su invito del datore non si sottoponga spontaneamente alla vaccinazione possa essere ritenuto temporaneamente inabile alla mansione, con un ventaglio di possibili ulteriori conseguenze che vanno dal suo ricollocamento in altri reparti sino all’aspettativa non retribuita o, in extrema ratio, al licenziamento.
Indipendentemente dalle motivazioni del lavoratore, e senza ovviamente trascendere in argomentazioni di carattere medico – posto che la dichiarazione di inabilità spetterà comunque esclusivamente al medico competente –, una simile interpretazione davvero stride anche alla luce di una valutazione retrospettiva dell’evoluzione della pandemia.
Quel singolo lavoratore, infatti, durante la fase più acuta della pandemia e per tutto il 2020 è stato ritenuto perfettamente idoneo alla mansione. Anzi, in quel periodo non è mai stato in discussione che la sua esposizione alla malattia potesse ex se non consentirgli di lavorare in azienda.
Oggi quello stesso lavoratore, che a prescindere dalla vaccinazione sarà comunque tenuto a rispettare tutte le stesse misure di contrasto al Covid-19 sin qui adottate, dovrebbe invece essere ritenuto inabile, e perciò passibile di misure fortemente impattanti sul suo diritto al lavoro quali la sospensione non retribuita per un lungo periodo, se non, secondo alcuni, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Tale cambio di prospettiva appare davvero forzato, tenuto conto che tutti gli altri lavoratori che desiderano meglio tutelare la propria incolumità potranno sottoporsi volontariamente alla vaccinazione. Tanto che, se il vaccino – come si auspica – è veramente efficacie (perché se non lo fosse mancherebbe persino un requisito essenziale di cui all’art.279 T.U.), la condotta del singolo rispettoso come in passato di tutti i protocolli non dovrebbe nuocere ai soggetti immunizzati. Mentre per quelli fragili, o con problematiche di salute, che in ipotesi non possono neppure sottoporsi per motivi precauzionali di salute alla vaccinazione, già i protocolli in atto consigliano l’adozione di eccezionali misure di sicurezza, tra cui ove possibile lo smart-working.
Ci si chiede infine quid iuris in caso di dichiarazione di inidoneità di un lavoratore sano ma non vaccinato, con conseguente misura impattante sulla sua retribuzione (se non sul posto di lavoro), in ipotesi di impugnazione giudiziale della misura. Perché il giudice del lavoro, a cui spetterebbe il difficilissimo compito di giudicare in assenza di una norma esplicita che regoli la fattispecie, per confermare la scelta del datore di lavoro dovrebbe a sua volta pronunciarsi con un provvedimento che, di nuovo, andrebbe a superare il limite costituzionale. Perché se nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non con legge, a maggior ragione nessuno dovrebbe essere costretto a sottoporsi ad una profilassi per il timore di pregiudicare il proprio posto di lavoro, né per conformarsi ad un dovere che in alcun modo è stato esplicitato sino a prevedere un trattamento sanitario obbligatorio.
Per concludere, la disamina svolta, che in un così breve spazio non ambisce ad alcuna esaustività, consentirebbe di superare alcune incertezze ponendo un perimetro ai doveri di prevenzione del datore, il quale, in assenza di un obbligo espressamente previsto con legge, si conforma alle prescrizioni vigenti adottando le misure di cui ai protocolli concordati tra le parti sociali, senza potersi spingere ad obbligare il proprio dipendente alla vaccinazione, che potrà essere semmai raccomandata nelle sole attività lavorative che comportino un rischio diretto di contatto con il virus, senza poter adottare sanzioni nel caso di mancata adesione.
Osservatorio permanente sulla Legalità Costituzionale
(alla redazione del parere ha contribuito l’Avv. Matteo Borgini)